Un paese in costruzione
Ciò che si vede è impressionante e colpisce subito, ancora di più in confronto ad altri stati africani, più caotici e scombinati. Nelle strade ognuno ha un attività, le persone attendono l’autobus in una fila ordinata, i mototaxi hanno il casco per loro e per l’unico passeggero che prenderanno lungo ogni tratta.
Ma oltre allo sguardo e a ciò che gli è nascosto, c’è di più, ci sono altre sensazioni che vanno più a fondo. Come un suono grave, costante e in lontananza, che fa vibrare nelle viscere un inspiegabile senso di dubbio. Come un eco profondo che proviene dalle mille colline del piccolo stato dell’Africa dell’est.
Echi dal passato
Non c’è stato bisogno di chiedere nulla. Il trauma non è un tabù, in questi racconti: non lo è più, anche grazie agli sforzi internazionali e del governo. «Io e mio marito insieme a nostra figlia siamo gli unici sopravvissuti di quel villaggio. I miei genitori, tutti i miei fratelli e i loro figli sono stati uccisi lassù – racconta mentre indica con il dito oltre al finestrino dell’auto – noi, nascosti in un auto di amici, siamo riusciti a raggiungere Kigali, dove ci siamo nascosti per mesi».
Sulle reali origini del conflitto, il Tribunale penale internazionale per il Ruanda scrisse che i Tutsi e gli Hutu non erano diversi ma erano stati distinti in base al ceto da parte dei colonizzatori (prima tedeschi e poi belgi), modalità trasmessa poi ai governi post coloniali.
Il genocidio del Ruanda resta inimmaginabile agli occhi moderni, non solo per la sua ferocia, ma anche per la sua precisione e meticolosità. Se per alcuni aspetti si potrebbe descrivere come un colpo di stato o una guerra civile, dall’altra sfugge da queste categorie per la sistematicità con cui uomini, donne, bambini furono massacrati a colpi di macete, violentati e fatti a pezzi non solo dalle forze militari, ma anche dalle persone comuni, che fino al giorno prima avevano condiviso la normale e semplice quotidianità con loro.
Il cammino quotidiano del perdono
Anni dopo Paulette, nel raccontare questa storia, dice che sua zia non dorme più per ciò che ha visto e subìto in quegli oscuri mesi degli anni ’90. Ricorda di come la zia quel giorno le avesse dato la lezione più importante: il perdono spinge avanti, il rancore spinge in basso. Sembrava non essere arrabbiata con lui, né che volesse passare a sua nipote un testimone di odio. Sulla carta quel ragazzo non aveva nessuna colpa, anche se le vie della rabbia, del rancore e le urla di un’ingiustizia subìta superano qualunque logica o discendenza genealogica.

Questo soprattutto quando l’ingiustizia è una lama di macete che fa a pezzi i tuoi cari davanti ai tuoi occhi, o è lo sguardo odioso del tuo vicino di casa che ti consegna agli aguzzini che ti violenteranno per annientarti. Non è mai facile perdonare, qui sembra impossibile. Quello in Ruanda, però, non è solo un viaggio in un paese, non è solo un viaggio nelle profondità di sé stessi, come spesso capita quando si è in cammino. In Ruanda si percorre un sentiero esplorato a lungo nella storia dell’umanità da religioni e filosofie, dalla giurisprudenza e da ogni essere umano: la strada del perdono. Il significato del termine assume qui la sua importanza, il suo peso reale e, più di tutto, la sua vera potenza, rivelando come sia l’unica possibilità per poter sopravvivere e andare avanti.
Raccontando di progetti sociali sul territorio ruandese, è impossibile prescindere dai fatti del 1994, principalmente perché sono ancora vivi nei cittadini (dunque per capire e apprendere cosa significhi ancora quella tragedia nelle persone), ma anche perché alcuni traumi o vulnerabilità sociali di oggi sono conseguenze dirette di quelle violenze, 23 anni dopo.
Nonostante tutto, siamo vive
Godeliève è un assistente sociale di formazione, e fin dai primi mesi dopo le stragi ha iniziato a prendersi cura delle persone vulnerabili traumatizzate dalle violenze: «il genocidio ha distrutto il tessuto sociale, creando inizialmente vedove e orfani, e successivamente rifugiati. Abbiamo visto assassinii, la distruzione delle case, conflitti interetnici e povertà estrema. Le violenze sessuali hanno provocato gravidanze non desiderate, che hanno portato a figli non accuditi, o addirittura odiati dalle loro madri».
Sevota pensa che uscire da questa condizione sia possibile, e per farlo utilizza l’approccio psico-sociale, metodo che lavora per creare un’ambiente positivo intorno a chi necessita la cura e a intrecciare insieme diversi ambiti: counselling, incontri a coppie e di gruppo, ma anche la danza o la preghiera, in modo da gestire lo stress post-traumatico in modo complessivo.
Nell’ottica di restituire alle donne una vita completa, oltre all’approccio psico-sociale, Sevota lavora anche sul rafforzamento economico delle donne attraverso attività generatrici di reddito, poiché «i due approcci si completano l’un l’altro» secondo Godeliève.
Oltre alle donne, Sevota lavora anche con gli orfani e con gli uomini. Anche loro hanno bisogno di superare il proprio stress post-traumatico, e non necessariamente perché sono stati vittime. Molti uomini hanno partecipato o sono stati complici del genocidio, e per questo sono stati in prigione.
Ma la riconciliazione passa anche da questo e il lavoro di Sevota non si ferma di fronte alle differenze. «Siamo tutti ruandesi», ripetono spesso i protagonisti di questa ricostruzione.
«L’ultima sfida è quella all’ignoranza – conclude la coordinatrice di Sevota – la maggioranza delle donne sono analfabete, dobbiamo aiutarle a riacquisire l’alfabetizzazione, successivamente formarle nell’economia domestica e così via. Contemporaneamente continua la nostra mobilitazione sociale nella comunità perché queste donne siano socialmente integrate, così come è anche nel programma del nostro governo».
Creare intrecci per uscire dalla solitudine
Qui opera una onlus italo ruandese, la Umubyeyi mwiza, che lavora con la popolazione con progetti socio-sanitari mirati soprattutto all’empowerment delle donne vittime delle violenze del genocidio. In Italia invece l’organizzazione si occupa di progetti di integrazione e intercultura. La sua presidente, Marie Claire è ruandese, ma parte della sua famiglia era in Burundi negli anni ’90, cosa che ha permesso ad alcuni di loro di salvarsi.
Insieme
Queste donne hanno alle spalle una storia difficile, molte sono sopravvissute al genocidio, ma molte altre sono mogli degli aguzzini. Nella cooperativa però si lavora tutte insieme: hutu o tutzi? Non importa, perché sono tutte ruandesi. Questo sembra essere l’importante oggi.
Nel 2015 la Chiesa Valdese, attraverso l’Otto per mille, ha finanziato Umubyeyi Mwiza con 46 mila euro per rafforzare la cooperativa di Butare. Grazie a questi fondi è stato possibile garantire la tessera sanitaria a tutte le 40 donne, e acquistare le materie prime per le attività manifatturiere: grazie al ricavato delle vendite, la cooperativa ha in progetto di acquistare galline, capre o conigli per rafforzare il sostentamento del gruppo.
Maria Montessori torna a scuola in Ruanda
La scuola materna Amahoro è importante nel quartiere, perché ogni anno accoglie gratuitamente 45 bambini tra le famiglie più povere e vulnerabili dell’area, permettendo ai genitori di cercare un’occupazione e ai bambini di crescere in modo sano. La scuola lavora con le autorità locali per scegliere le famiglie che necessitano maggiormente di aiuto, ma ogni anno è evidente come il numero dei nuovi ingressi non basti.
«Quando siamo arrivati in questa zona abbiamo visto che a fianco alle case moderne c’erano le bidonville e abbiamo deciso di fare qualcosa» dice il responsabile della scuola, Valens Nyamucahakomeye, Country Director del Progetto Rwanda – Casa della pace. Il suo nome significa “passato per situazioni difficili”, e dopo i racconti ascoltati finora, basta uno sguardo per intendersi.
La scuola materna, inoltre, provvede al pagamento della tessera sanitaria per gli alunni e offre un pasto completo per pranzo, garantendo almeno questo appuntamento di sana alimentazione per i bambini.
Murakoze Montessori
Il progetto di inserimento del metodo Montessori nella scuola materna Casa della Pace e della Riconciliazione di Kigali è stato finanziato, tra gli altri, anche dall’Otto per mille Valdese, con un sostegno di circa 15.000 euro nel 2015.
Tra questi progetti, e soprattutto tra questi giochi, questi schiamazzi e questa speranza per il domani, le mille colline del Ruanda risuonano di un eco nuovo da ascoltare. Una vibrazione che arriva dal passato, ma si trasforma, diventando un crescente e fiducioso suono dal futuro. Murakoze.